Il mondo del lavoro si è fatto negli ultimi decenni ancora più competitivo. Peggio ancora, è aperto, globale. E’ ovvio che in una prospettiva di questo tipo la partita si gioca sullo spinoso terreno della formazione. Da questo punto di vista, l’Italia si trova meno attrezzata di quanto ci si aspetterebbe. Deboli, soprattutto le università. A dimostrarlo è tra le altre cose l’ultima ricerca di QS, che procede dal programma di monitoraggio “Worldwide University Rankings, Guides & Events“. Il risultato è una classifica globale che arride ben poco all’Italia. Siamo presenti solo per il rotto della cuffia, e con un solo ateneo: l’Università Bocconi di Milano.

Le prime posizioni sono occupate – ovviamente – dalle università degli Stati Uniti, che quindi confermano la loro fama – e soprattutto rivelano che la loro fama è pienamente giustificata. La vetta è appannaggio del MIT (Massachusetts Institute of Technology), di Harvard e di Cambridge. La britannica Oxford raggiunge la quarta posizione. Giappone, Svizzera e Singapore colorano il resto della top ten. A farle compagnia, al settimo posto, è appunto l’Università Bocconi di Milano, unica italiana.

Un risultato magro? Probabilmente, visto che – se escludiamo la presenza nella top 20 del Politecnico della città meneghina – dell’Italia praticamente non c’è traccia. Questo è un problema per almeno due motivi.

Il primo è legato agli obblighi che questa particolare epoca impone. In breve, le possibilità per emergere come paese (dal punto di vista economico) sono due: o si produce a prezzi bassi – vantaggio di costo – o si punta sulla qualità. E’ ovvio che il concetto di qualità e il concetto di formazione siano molto legati. La formazione è quindi motivo di differenziazione e un’arma per vincere la competizione nel mercato globale. Se le università italiane soccombono rispetto a quelle straniere, il problema all’origine si ingrandisce e rischia di diventare veramente insolvibile.

Il secondo motivo ha che fare più con la percezione di cui l’università italiana gode. Una percezione che non proviene dall’estero, ma dall’Italia. Un numero sempre maggiore di italiani, proprio a causa della debacle universitaria – soprattutto in prospettiva lavoro – smette di formarsi, e lo reputa addirittura inutile. Il problema si ingigantisce e assume le sembianze del classico cane che morde la coda.

Fortunatamente, stanno emergendo alcuni canali del tutto nuovi, che in qualche modo riescono a compensare la disaffezione che gli italiani nutrono verso l’università. Canali che fanno sì che questa disaffezione rimanga vincolata al mondo accademico, e non riguardi la formazione tout court. Sono i canali rappresentati dai corsi online, che ormai hanno raggiunto una loro dignità e una conquistata una loro credibilità (che non si dissipa nel confronto con l’estero, in cui questi strumenti sono già diffusissimi).