L’innovazione, e quindi l’impegno nella ricerca, non è un optional per le imprese. E’ un’effettiva necessità. Lo spartiacque tra coloro che sono condannati a fallire e coloro che riusciranno a sopravvivere. Ci spiega perché il professore Tito Menzani, prolifico saggista e formatore di successo.

Salve, ci racconti un po’ di lei. Di cosa si occupa? Qual è la sua storia professionale?

Sono nato a Bologna nel 1978 e a ventitré anni mi sono laureato con 110 e lode nell’ateneo della mia città. Poi ho conseguito un PhD in Storia dell’impresa, dei sistemi d’impresa e finanza aziendale all’Università di Milano. Nel 2007 sono stato visiting fellow alla London School of Economics, dove ho vissuto un’esperienza professionale e umana straordinaria. Rientrato in Italia, ho poi avuto la docenza di due corsi dall’Università di Bologna (storia economica e storia dell’impresa, che mantengo tuttora) e ho iniziato a collaborare con fondazioni, istituti culturali e imprese per progetti di ricerca dedicati. Ad oggi ho pubblicato venti libri e settanta saggi scientifici (su riviste o volumi miscellanei), principalmente di storia economica, contaminata da apporti di storia sociale ed istituzionale; alcuni miei lavori sono stati tradotti in inglese e in francese. Insieme ad altri tre studiosi, ho scritto il manuale scolastico per licei Una storia globale. Storia, economia, società, di recente uscito per Mondadori education. Grazie a questa produzione scientifica ho conseguito l’abilitazione nazionale come professore di seconda fascia, in storia economica e in storia contemporanea. Negli ultimi anni ho dato più spazio all’attività di formatore, sia nei master universitari e aziendali, che in corsi specifici rivolti a quadri e a dirigenti d’azienda.

Quanto è importante per un addetto ai lavori sapere di storia dell’impresa? E’ una disciplina che fornisce molti strumenti pratici?

La storia d’impresa (o business history) è una disciplina sottovalutata. Sui banchi di scuola si studia soprattutto la storia istituzionale, e il risultato è che oggi le persone sanno che la rivoluzione francese c’è stata nel 1789, ma sono in serie difficoltà a datare la nascita dell’impresa, per non parlare poi della fondazione della prima cooperativa o delle imprese pubbliche. Viceversa, siccome il mondo che ci circonda è in larga misura composto da rapporti e processi economici (oltre che sociali, politici, ecc.), credo che sia fondamentale conoscere l’abc della business history. Se uno fa il manager o il consulente, o se è un amministratore pubblico o un funzionario di partito, come può ignorare i tempi e i modi che hanno condotto alla nascita e allo sviluppo dei distretti industriali? Si tratta di territori caratterizzati da piccole e medie imprese che hanno avuto un loro percorso evolutivo, e quindi se si vuole comprendere il presente (o progettare il futuro) è necessario sapere qualcosa sul passato.

Il senso comune vede l’Italia come il paese delle piccole e medie imprese. E’ davvero così o è un mito da sfatare?

Non è assolutamente un luogo comune. L’Italia è all’ottavo posto nella classifica dei paesi più industrializzati e, dati alla mano, è certamente quello in cui le piccole e medie imprese hanno maggiore diffusione e radicamento. Questo per via di ragioni culturali, come la centralità della famiglia (che tende a limitare la managerializzazione, indispensabile per crescere), ma anche di scelte politiche, dato che l’impresa artigiana ha storicamente goduto di grandi agevolazioni. Aggiungo che l’economia italiana è stata anche caratterizzata dalla presenza di grandi imprese manageriali, ma una quota considerevole di queste è entrata in crisi (o è fallita) negli ultimi tre-quattro decenni, e questo ha finito per accentuare l’immagine di un tessuto produttivo molto legato ai distretti industriali.

Qual è il punto di forza che le piccole e medie imprese hanno rispetto a quelle più grandi? E il punto di debolezza?

Sicuramente le piccole e medie imprese sono più flessibili e sanno bene inserirsi nei mercati in cui il prodotto non è standardizzato, come quelli dell’abbigliamento o della meccanica strumentale, che non a caso sono due ambiti in cui il nostro paese eccelle. Di contro, soffrono il ricambio generazionale, non sono in grado di effettuare investimenti troppo consistenti nella ricerca, e più di rado strutturano un welfare aziendale. La crisi della grande impresa italiana è stato un grave colpo alla nostra economia, e questo a prescindere da quanto i distretti siano efficienti o efficaci, ma perché la biodiversità dei modelli aziendali è un valore aggiunto.

E le imprese pubbliche? Esiste un elemento tipico di questo modello in grado di concretizzare un vantaggio competitivo rispetto agli altri modelli?

Negli anni novanta e duemila, a seguito del collasso dei paesi ad economia pianificata e dell’ondata di privatizzazioni che ha investito l’Occidente, l’impresa pubblica è diventata sempre più marginale, e in alcuni Stati addirittura residuale. La crisi che dal 2008 ha colpito il mercato globale ha indotto molti osservatori a ripensare all’importanza delle istituzioni e delle regole in ambito economico. L’impresa pubblica ha cessato di essere un obiettivo polemico e si è anche rivalutata la sua funzione in prospettiva storica. Soprattutto là dove esiste un cosiddetto “monopolio naturale”, il ruolo dello Stato non può essere espunto tout court. Non ha senso privatizzare d’emblée la società che ti porta l’acqua a casa, perché quello è un “monopolio naturale”, nel senso che il cittadino non ha nel proprio appartamento dieci rubinetti e ogni giorno può scegliere da chi acquistare l’acqua. Il gestore è unico e quindi è un monopolista, e il cittadino è costretto a comprare l’acqua da lui e ad accettare le sue tariffe. Ecco perché l’impresa pubblica (che non ha finalità esclusive di profitto) in certi ambiti può ancora essere considerata un valore aggiunto. Un analogo discorso vale per alcuni contesti strategici, come quello dell’estrazione di risorse dal sottosuolo, che in molti paesi vedono protagoniste le imprese pubbliche.

A che punto è il settore Ricerca e Sviluppo nelle imprese private italiane? Siamo veramente così indietro?

Non mi colloco tra coloro che prevedono un declino continuo per il nostro paese. Certamente i problemi dell’Italia non sono pochi, ma personalmente credo che il tessuto produttivo sia sano e virtuoso, nel senso che le nostre imprese stanno sì subendo una crisi (che non hanno contribuito a scatenare), ma hanno ben poco da rimproverare a se stesse. Di truffatori e di pochi di buono il mondo è pieno, e gli scandali che hanno coinvolto aziende anche importanti hanno saturato le pagine di giornali, ma l’esperienza sul campo mi ha portato a conoscere numerosissime realtà di successo, in cui l’etica del lavoro e la lungimiranza imprenditoriale vanno a braccetto. E in queste aziende, spesso, il cuore pulsante è proprio composto da coloro che si preoccupano di fare ricerca e di sviluppare nuovi prodotti o nuovi processi. Semmai, è vero che si è contratto il ruolo dello Stato nell’ambito della ricerca scientifica, ed è forse dall’inversione di questo trend che occorre ripartire.

Perché l’innovazione è importante per un’impresa? Di quali benefici concreti gode un’impresa che investe molto nella ricerca?

Pensiamo a un prodotto, uno qualsiasi. Pensiamolo in prospettiva storica, e cioè a come è cambiato nel tempo. Ebbene, potremo sforzarci finché vogliamo, ma non troveremo mai qualcosa che negli ultimi cinquant’anni è rimasto esattamente uguale a se stesso. Innovare significa stare al passo coi tempi, rapportarsi ai nuovi bisogni della società e del mercato. Ecco perché la definizione che preferisco di “imprenditore” è quella in cui si dice che è un “innovatore”. E cosa sennò? Ogni impresa, anche modesta, deve innovare per sopravvivere, altrimenti non può stare sul mercato. E chi innova di più e meglio è premiato da aumenti del fatturato e dalla crescita dell’azienda.

In che direzione sta andando il marketing d’impresa?

Il termine “marketing” va molto di moda. Ma provi a chiedere a qualcuno che cos’è. Solo di rado otterrà una risposta corretta, e cioè che il marketing è l’insieme di attività che caratterizzano la connessione tra il mondo della produzione e quello del consumo, e cioè tra domanda e offerta. Detto questo, il marketing sta per così dire esplodendo, perché sempre più irrelato a una moltitudine di aspetti: prezzo, brand, pubblicità, ricerche di mercato, distribuzione, aspetti comportamentali del consumatore, ecc. Ognuno di questi ambiti rappresenta già un territorio di per sé, e quindi bisogna fare i conti con una crescente segmentazione. Questo è ancor più incredibile se si pensa che i primi corsi di marketing sono stati istituiti dalle università anglosassoni solamente agli inizi del secolo scorso; in precedenza il marketing non esisteva in quanto disciplina.

Per concludere, ci può fare un esempio concreto di utilità della business history?

Qualche hanno fa un’impresa di una certa dimensione e importanza mi incaricò di scrivere la propria storia, a partire dalla vasta documentazione contenuta nel loro archivio. Concluso il lavoro, consegnai il manoscritto all’amministratore delegato, che dirigeva l’azienda da circa due anni, e che in precedenza era stato occupato in un’altra realtà. Quando ebbe concluso la lettura, mi fece convocare per dirmi personalmente: “Adesso capisco come mai abbiamo questi assets! E capisco perché il commerciale abbia fatto certe scelte!”. In pratica, da due anni guidava una compagine nella quale era piombato senza sapere praticamente nulla della storia di quell’azienda, e la lettura del mio lavoro di ricerca lo aveva per così dire illuminato in relazione all’evoluzione che l’impresa aveva avuto prima di ritrovarsi nella condizione in cui lui l’aveva trovata. Questa è l’utilità della storia: spiegare il perché di certe scelte che ci hanno preceduto e che condizionano il presente in cui viviamo. Senza questo background, se guardiamo solo a ciò che ci circonda prescindendo da un’adeguata prospettiva diacronica, facciamo davvero fatica a spiegarci perché il mondo è fatto così. E facciamo ancor più fatica a costruire un futuro di successo.