La carne rossa e i suoi lavorati sono cancerogeni. E’ la rivelazione che l’OMS ha fatto qualche giorno fa. Una notizia che giunge inaspettata ai più, e che non sortirà effetti solo sulla salute. A rischiare di finire in ginocchio, infatti, è il comparto italiano delle carne, fino a questo momento piuttosto solido grazie a un felice connubio tra industria e artigianato. La cultura gastronomica italiana può vantare prodotti tipici come salami, prosciutti e insaccati in generale.

Le prime avvisaglie del disastro sono state riscontrati già nei giorni successivi all’annuncio, con le vendite che si sono contratte, su base giornaliera, anche del 20%. Questo dato, se fosse vero che la carne rossa fa male, sarebbe difficile da digerire ma tutto sommato moralmente accettabile. Il problema è che l’annuncio dell’OMS si accompagna con parecchi “ma”.

In primo luogo, il fattore discriminante è la quantità. La carne rossa può essere consumata, ma non spesso. Esattamente nelle quantità a cui gli italiani sono abituati. In questo senso, l’allarmismo dell’OMS fa riferimento alle abitudini dei paesi anglosassoni, che ne mangiano tre o quattro volte tanto. Secondariamente, è anche una questione di qualità: i salumi italiani, rispetto a quelli del resto del mondo, sono prodotti con materie prime genuine e il processo industriale sposta poco o nulla. Infine, gli italiani raramente mangiano la carne “da sola”, ma l’accompagnano con il pane, la verdura e gli ortaggi, e ciò diminuirebbe di gran lunga il rischio di sviluppare il cancro.

La questione è che, almeno in questi primi giorni, a essere rimbalzata su giornali e televisioni è la notizia secondo cui le carni rosse e i suoi lavorati fanno male. E’ passato poco o nulla tutta quella serie di “ma”, che di fatto neutralizza tutto il facile allarmismo.

Ecco quindi che la faccenda si sposta su un piano di marketing. O, per meglio dire, sulla comunicazione, che del marketing è una leva. Non si può agire sull’OMS, che è un organismo autonomo. Non si può agire sul prodotto finale, le cui caratteristiche sono immutabili. Dunque è necessario agire sulla percezione nella mente dei consumatori. L’unica speranza per salvare il comparto è questa.

Nello specifico, cosa dovrebbero fare le sigle come la Coldiretti e la Federconsumatori? Semplicemente, devono comunicare di più e farlo con una voce sola. C’è una mole di articoli sul web e sulla carta stampata da compensare. Si tratta di apporre il sensazionalismo al lume della ragione, che non è mai facile – ma possibile, se si confezione un messaggio formalmente attraente quanto veritiero.