C’è forse un’immagine che può rappresentare meglio di altre l’essenza del citizen journalism. 12 marzo 2013: Jorge Bergoglio si affaccia a San Pietro e viene presentato come il nuovo papa, Francesco. Decine di migliaia di occhi sono su di lui, come è ovvio che sia, ma anche migliaia si smartphone. E questo non è ovvio per nulla. Anzi, è la prima volta che un nuovo pontefice è accolto così.

Migliaia di persone in quel momento hanno testimoniato un evento e hanno reso partecipi gli assenti di ciò che stavano vedendo. Ognuno dal suo punto di vista, così come avrebbe fatto un inviato di guerra.

In quel momento, forse inconsapevolmente, migliaia di persone si sono trasformate in giornalisti. Per la precisione, in citizen journalist.

Da dove nasce il citizen journalism? E qual è il suo impatto sul mondo dell’informazione?

Come la maggior parte dei cambiamenti degli ultimi due decenni, l’origine va rintracciata nelle tecnologie digitali. Il web prima e il web 2.0 poi (quindi i social media) hanno interconnesso le persone tra di loro, hanno dotato tutti di un pulpito dal quale parlare. Hanno fatto emergere una esigenza certamente insita nell’uomo, ma di cui prima non si aveva consapevolezza – non in questi termini almeno: l’esigenza di partecipare. Di dire e non solo di ascoltare. Grazie alla possibilità di “parlare al mondo”, l’uomo ha scoperto che il vecchio modello dell’informazione – in cui c’era un informatore e c’era un fruitore – era obsoleto. Ha scoperto che la comunicazione poteva, e anzi doveva, essere biunivoca.

Il ché, unito alla reale possibilità di filmare, fotografare e pubblicare in tempo reale, ha posto le basi per lo sviluppo del citizen journalism.

Il fenomeno ha una valenza epocale, molto più significativa di quello che si pensa. Le conseguenze nel mondo dell’informazioni sono molte e tutte importanti non solo dal punto di vista culturale, ma anche economico.

Sul fronte culturale, o forse metodologico, si assiste alla perdita di professionalità. Il giornalista è quella figura che non solo riporta una notizia, ma la filtra e la interpreta secondo un paradigma che dipende dalla sua esperienza ma soprattutto da una deontologia precisa e condivisa dai colleghi. Il citizen journalism è, in un certo senso, un “cane sciolto”. L’evento, quando non è riportato in modo nudo e crudo, viene trasmesso attraverso paradigmi frammentati, che variano da mittente a mittente. Questo è un bene o un male? La risposta è dei posteri, ma nella migliore delle ipotesi si può affermare che si perde qualcosa in professionalità.

Il corollario di tutto ciò sta nella perdita di importanza di un certo tipo di giornalismo professionistico, specie quello della carta stampata e, ancora di più, quello dei quotidiani.

Oggi ha poco senso, per una testata, puntare sulle classiche “notizie fresche”. Per quanto competente e attrezzata possa essere la redazione, questa verrà sempre superata da un ragazzo con lo smartphone e con una connessione internet.

Il giornalismo professionistico, quindi, è chiamato a cambiare la sua missione. Non deve riportare notizie, deve commentarle, interpretarle. Deve trasformarsi in un giornalismo delle “riflessioni”. Su questo fronte, infatti, non potrà mai essere battuto dal citizen journalism. Nessuna nuova tecnologia potrà mai sostituire l’uomo nel suo lavoro di immaginazione e di creatività.