Viviamo in un mondo in cui rispondere a una domanda è molto più facile rispetto ai decenni precedenti: basta mettersi di buzzo buono e scavare nella rete per trovare un buon punto di partenza dal quale cominciare a precisare ulteriori domande, inquadrare meglio taluni fenomeni, interrogare qualcuno che ne sa più di noi. Insomma, fare i giornalisti.

Eppure di datajournalist ce ne sono pochi, almeno in Italia. A mio avviso, l’errore più grossolano che si può fare in merito è considerare il datajorunalism come una possibilità, una scelta, anziché uno strumento fondamentale con cui i giornalisti del 2015, che in rete ci vivono, si devono confrontare.

Personalmente ho cominciato a lavorare regolarmente con numeri, report e tabelle excel da un paio d’anni, e la mia opinione è che il punto non sia amare o meno la matematica, anche perché di matematica a ben vedere se ne fa poca: nulla di più delle care 4 operazioni. È l’approccio che fa il datajournalist, l’attenzione al numero che sta dietro qualsivoglia dichiarazione o opinione espressa. Fare datajournalism significa ascoltare una trasmissione politica in tv e chiedersi quali dati supportino o smentiscano una certa affermazione data da un nostro politico; significa fare la coda in posta, e ascoltare due anziani in fila che lamentano presunte ingiustizie del sistema, tornare a casa e cercare i numeri di queste presunte ingiustizie. Tutto questo, io credo, ha a ben poco a che fare con l’amore per la matematica.

Si faceva anche prima – potreste dire – non è nulla di diverso dalla vecchia attività giornalistica fatta con serietà e pertinenza”. Concordo, ma oggi abbiamo accesso a un quantitativo di informazioni che mai nessuno dei nostri colleghi di 20 o 30 anni fa poteva sognare: oggi rilasciano quotidianamente su internet i loro dati ministeri, associazioni, enti pubblici, aziende, centri di ricerca.

Proprio in questi giorni sto leggendo un bellissimo volume scritto a quattro mani da Dario Fo e Franca Rame che si prefigge l’obiettivo di raccogliere tutto ciò che i due grandi artisti hanno compreso della propria professione. L’aspetto che mi colpisce maggiormente delle loro storie è l’incredibile eclettismo che le loro esperienze quotidiane imprimevano nella loro attività teatrale. Allo stesso tempo però gli stessi Dario e Franca raccontano come molti spettacoli “impegnati” non sarebbero stati quello che sono stati senza un’analisi precisa di una marea di dati. Forse molti non saranno d’accordo, ma io vedo diverse somiglianze fra l’attività di noi giornalisti e quella di chi scrive per esempio pieces teatrali: in entrambi i casi è quello che ti accade intorno a stimolare la tua ricerca, le tue domande. Mi sono permessa questa lunga pantomima per liberare il campo da eventuali obiezioni basate su una certa idea di datajournalism come qualcosa di asettico, di lontano dalla vita reale, che ci nutre di sterili numeri, in contrapposizione con il giornalismo della strada, quello che ascolta le voci della gente.

Lavorare con i dati non esclude, anzi auspica un lavoro sul campo, è anzi un’occasione in più per porre domande che altri non hanno posto.

Eppure i data-journalist noti in Italia si contano facilmente. Lo stesso fatto che esista la parola data-journalist per identificare una categoria è assai significativo del fatto che sebbene se ne parli da oramai 3-4 anni, il lavoro con i dati rientri nell’attività quotidiana di pochi colleghi.

Ed è un autentico peccato.

@CristinaDaRold